Ritratto di Antonio Mordini in divisa garibaldina (it.wikipedia.org)

IL TERZO GOVERNO DELLA DITTATURA GARIBALDINA

di Angelo Grimaldi

Pubblichiamo il terzo, ed ultimo, articolo dedicato dal prof. Angelo Grimaldi al Governo della Dittatura garibaldina in Sicilia. Abbiamo dovuto togliere, per esigenza di spazio, numerose note. Ce ne scusiamo con l’Autore.

La Dittatura garibaldina fu una forma di governo collegiale straordinaria e transitoria affidata al Generale Giuseppe Garibaldi in modo da garantire, in una situazione eccezionale e di emergenza, unità nella linea di comando e maggiore tempestività nell’assunzione delle decisioni politiche ed amministrative.

Per un breve periodo il principio della separazione o distinzione dei poteri venne parzialmente sacrificato. Al dittatore, infatti, vennero attribuiti poteri legislativi ed esecutivi (parlamento e governo), ma non il potere giudiziario. Garibaldi, coinvolto direttamente nelle operazioni militari, assunse inizialmente la Dittatura in Sicilia, dal 7 settembre 1860 assunse la Dittatura dell’Italia Meridionale. Nel corso della breve dittatura, delegò l’esercizio dei suoi poteri legislativi ed esecutivi ai pro-dittatori (dapprima in Sicilia e successivamente a Napoli).

Con decreto del 17 settembre 1860, n. 202, il Dittatore Garibaldi nomina prodittatore in Sicilia il toscano Antonio Mordini, Uditore Generale dell’Esercito, che subentrò ad Agostino Depretis, il quale, dichiarandosi favorevole all’immediata annessione dell’isola, secondo il volere di Camillo Benso, si era posto in contrasto con il governo presieduto da Giuseppe Garibaldi, il quale, invece, voleva ritardare l’annessione, prolungare la sua dittatura e nello stesso tempo tentare di muovere da Napoli alla volta di Roma.

Con lo stesso decreto vennero nominati i ministri: alle Finanze Domenico Peranni, ai Lavori Pubblici Paolo Orlando, al Culto e alla Pubblica Istruzione Gregorio Ugdulena, all’Interno Enrico Parisi, alla Giustizia il barone Pietro Scrofani, alla Sicurezza Pubblica Gregorio Tamajo, alla Marina Battista Fauché, alla Guerra il Col. Nicola Fabrizi, agli Affari Esteri e Commercio Domenico Piraino. Con decreto del 18 settembre 1860, n. 204, l’avv. Angelo Bargoni venne nominato segretario generale del Governo all’immediazione del pro-dittatore.

Garibaldi delegò l’esercizio dei suoi poteri legislativi ed esecutivi ai prodittatori, tuttavia rimase Dittatore dell’Italia Meridionale, capo di un Governo provvisorio, eccezionale.

Il 16 settembre 1860 era stata emanata la legge n. 200 “Legge con quale il Dittatore, riserbandosi la suprema direzione degli affari politici e militari, e la sanzione degli atti legislativi, delega per suoi rappresentanti due Prodittatori l’uno per la Sicilia, l’altro per Napoli”. Il territorio da governare ed amministrare non era più solo la Sicilia ma l’intera Italia Meridionale, Garibaldi, al fine di mantenere unità di indirizzo, diede al suo Governo un assetto centralizzato e strutturato su due livelli: per la Sicilia e la parte continentale due prodittatori, sopra i due “sottogoverni”, una struttura collegiale sovraordinata costituita dal Governo del Dittatore dell’Italia Meridionale, apparato centralizzato che “riserba a sé la suprema direzione degli affari politici e militari, e la sanzione degli atti legislativi”.

Il 20 settembre 1860 prende forma l’apparato di governo. Con decreto n. 209, oltre al Segretario Generale, si istituiscono due Segretari di Stato presso il Dittatore, uno per gli affari di Sicilia e l’altro per gli affari del continente Napolitano. All’art. 2 si legge: “La Segreteria generale avrà la facoltà data, sotto il passato regime, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri”. Tutti gli affari riservati alla suprema autorità del Dittatore, saranno esaminati dai due Segretari di Stato limitatamente alla loro competenza territoriale. Si stabilì, inoltre, che i ministeri degli Affari Esteri e quello della Guerra sarebbero stati affidati ai Segretari di Stato alla immediazione del Dittatore.

Il 22 settembre 1860 (decreto n. 210), la Dittatura da struttura monocratica diventa collegiale con Francesco Crispi Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia e Agostino Bertani per gli Affari delle province continentali. Questo assetto centralizzato, che si sovrapponeva ai due governi territoriali (prodittatura in Sicilia e prodittatura a Napoli), durò pochi giorni, infatti il 5 ottobre 1860 i due Ministeri furono soppressi, l’avvocato Francesco Crispi fu nominato Segretario di Stato presso il Dittatore (decreto del 5 ottobre 1860, n. 234). Il Dittatore restituì ai due Prodittatori i poteri ad essi riservati dalla legge 16 settembre 1860 (decreto del 7 ottobre 1860, n. 235).

Il 5 ottobre 1860 il Prodittatore in Sicilia, Antonio Mordini, emanò il decreto n. 233 con il quale si convocarono per il 21 ottobre 1860 i collegi elettorali per eleggere i deputati all’Assemblea che avrebbero dovuto pronunciare il voto d’unione al Regno d’Italia.

Antonio Mordini, nonostante la confusione generale e i forti contrasti fra chi voleva subito l’annessione e chi avrebbe preferito la convocazione di due Assemblee elettive (una a Palermo ed una a Napoli), non si perse d’animo, quattro giorni dopo (il 9 ottobre 1860) emanò il Decreto n. 239 che fissava per il giorno 4 novembre 1860 la riunione in Palermo dell’Assemblea dei Rappresentanti del popolo siciliano. In premessa il decreto recita: “Volendo accelerare il fortunato momento in cui il Popolo Siciliano, debitamente rappresentato, possa manifestare liberamente la sua volontà intorno all’annessione di cui trattasi…”.

Fino al 9 ottobre 1860 l’orientamento prevalente era per la convocazione di un’assemblea di rappresentanti del popolo siciliano, i cui deputati avrebbero potuto liberamente deliberare sulle condizioni dell’annessione. L’Assemblea avrebbe potuto stabilire di non annettere la Sicilia al nascente Regno d’Italia? La convocazione dell’Assemblea può essere considerata come la sola procedura per legalizzare l’annessione al nuovo Regno? Non è semplice dare una risposta, tuttavia da un esame coordinato di alcuni decreti ed atti emanati da Garibaldi, da Antonio Mordini e dalla relazione del Consiglio straordinario di Stato convocato in Sicilia dal Prodittatore Mordini con decreto del 19 ottobre 1860 (la cui durata fu prorogata da dieci a quindici giorni con decreto del 5 novembre 1860), credo che si possa affermare che la convocazione dell’Assemblea fosse stata concepita come preordinata alla deliberazione dell’annessione della Sicilia, intesa come grande divisione territoriale del nuovo Regno, ma assistita da alcune prerogative istituzionali.

Facciamo un passo indietro. Il 23 giugno 1860 era stato emanato il decreto n. 57 che stabiliva le “norme per la votazione sull’ammissione della Sicilia alle province libere d’Italia, o per suffragio diretto, o per mezzo di una Assemblea”. Dunque, sin dal mese di giugno si era stabilito ufficialmente che il popolo siciliano sarebbe stato chiamato a pronunciare il suo voto “sull’annessione dell’isola alle province emancipate d’Italia o per suffragio diretto o per mezzo di una assemblea”. Anche il decreto del 5 ottobre di convocazione dei collegi elettorali nel preambolo conferma quanto stabilito il 23 giugno: “Considerando che i progressi delle armi italiane ravvicinano sempre più il giorno nel quale sarà costituito sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele il Regno d’Italia; considerando essere perciò conveniente che la Sicilia si trovi preparata a pronunziare anch’essa il suo voto per entrare in seno alla grande famiglia italiana…”.

Antonio Mordini, subito dopo l’emanazione del decreto di convocazione dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, inviò ai governatori delle province e dei distretti (oltre al testo del decreto) una nota illustrativa. Leggiamo insieme alcuni passaggi fondamentali per meglio comprendere la posizione del governo garibaldino: “il decreto del 23 giugno schiudeva due vie alla manifestazione del voto dell’Isola: un’Assemblea o il suffragio diretto. Fra le due vie il Governo (di Sicilia) non ha potuto esitare a scegliere la prima […] Nel ricevere dalle mani del Dittatore la delegazione dei suoi poteri sull’isola, io riconobbi la esistenza di elementi di discordia alla superficie, non al fondo della società Siciliana. La gran massa del popolo … non s’ispira che ad una politica di riconoscenza e d’amore. Ma dalle masse emerge la classe che non ragiona soltanto col cuore e che discute i problemi dell’avvenire con calcoli freddi e maturati. E’ tra questa classe che sorsero le dissonanze; è in faccia a questa che il mio Governo abbracciò una politica conciliativa…. Ma il Governo che non ha passione di partiti doveva tentare una prova suprema di conciliazione anche con loro, con tutti. L’Assemblea, Sig. Governatore, è patto di concordia. Come tale fu voluta dal Governo perché l’Assemblea apre larghissimo il campo alla classe intelligente e colta di svolgere, in un terreno libero, indipendente, non soggetto a coazione alcuna, i propri studi, le proprie vedute, i concetti che ognuno crede meglio conducenti a consolidare il benessere generale. Io la invito, Sig. Governatore, a far conoscere ai suoi amministrati le idee che condussero il Governo a decretare la convocazione dell’Assembla”. Il testo non lascia dubbi: sarebbe stato preferibile il suffragio universale diretto, considerato come “la più irrecusabile consacrazione finale della volontà di un popolo”, ma all’Assemblea sarebbe spettato di deliberare l’unione della Sicilia al Regno d’Italia svolgendo “in un terreno libero, indipendente, non soggetto a coazioni di sorta alcuna, i propri studi, le proprie vedute, i concetti meglio conducenti a consolidare il benessere generale”.

Prevaleva l’idea di “unità italiana”, il suffragio universale maschile o la scelta dell’assemblea rappresentavano soltanto due diverse modalità di raccolta del consenso per arrivare alla costituzione del Regno d’Italia. Il 9 ottobre 1860, dopo aver ricevuto la copia del decreto e la nota illustrativa, il Governatore del distretto di Mazzara (provincia di Trapani), Alberto Mistretta, fa pubblicare un manifesto i cui passaggi fondamentali confermerebbero la ricostruzione in senso unitario: “Avete già manifestamente e chiaramente riconosciuta vicina la Costituzione del Gran Regno d’Italia […] Ma non l’abbiamo noi giurato Italia e Vittorio Emmanuele? Non abbiamo noi proclamato la nostra adesione allo Scettro Costituzionale di Vittorio Emmanuele, all’Italia Una? Dunque si compia quell’atto tanto solenne, quell’atto da noi desiderato, quell’atto che per i nostri particolari interessi ci rassicura e ci conduce a nuova vita, quell’atto che gloriosi ci fa in faccia all’Europa, e riconoscenti ci presenta all’Italia tutta […] E perciò ch’io vi esorto, nell’accordo sentire del Generale Dittatore e del prodittatore, vi esorto di tutti concorrere a dare il vostro sicuro, coraggioso, non timido, ma spontaneo voto […] persone scegliete di ammirevole ed inattaccabile onestà […] non altre doti qualsiasi fanno degno un uomo per sedere da rappresentante de’ suoi concittadini […] Non mancate dunque, badate all’interesse dell’Isola nostra, dell’unità Italiana, corrispondente allo appello del Governo, non tradite il giuramento: Italia e Vittorio Emmanuele”.

L’idea di convocare Assemblee rappresentative a Palermo e a Napoli spaventava Cavour e gli annessionisti meridionali, soprattutto per il fondato timore di arrivare ad una annessione “condizionata”. Sull’argomento scrive Roberto Martucci: “…le Due Sicilie non sono un coacervo di province da assimilare e omologare tramite legge Rattazzi sugli enti locali, bensì Stati di tradizione plurisecolare. Convocare un’Assemblea rappresentativa a Palermo, farla riunire a Palazzo dei Normanni o in un altro luogo simbolicamente evocativo, vederla operare nell’aula dei Parlamenti siciliani del 1812 e del 1848 avrebbe inevitabilmente vellicato l’orgoglio istituzionale isolano. Pur formata con accorgimenti censitari da deputati notabili, difficilmente quella di Palermo sarebbe stata un’ossequiosa Assemblea, comparabile a quelle fariniane di Modena, Parma e Bologna e a quella ricasoliana di Firenze. Quanto alla Sicilia al di qua del Faro, la parte continentale del Regno, convocare un’Assemblea a Napoli avrebbe rinverdito i pericolosi ricordi dei Parlamenti del 1820-21 e del 1848, inceppando il meccanismo dell’annessione incondizionata”i.

Camillo Benso altro non voleva se non un incondizionato plebiscito d’annessione. Nella relazione al progetto di legge sulle annessioni dell’Italia meridionale scriveva: “Tutti vogliono recare a compimento il grande edificio dell’Unità Nazionale. Ma esso deve sorgere mediante lo spontaneo consenso dei popoli, non per atto alcuno di costringimento o di forza. Non crede il Ministero che la forma del voto possa essere argomento di discussione. I popoli saranno invitati ad esprimere se vogliono o no congiungersi al nostro Stato, senza però ammettere alcun voto condizionato”.

I decreti emanati a Palermo, conosciuti a Napoli trovarono la ferma e convinta opposizione del Prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio (favorevole al Plebiscito) Francesco Crispi (favorevole all’elezione dell’Assemblea) tentò inutilmente una mediazione, ma alla fine Garibaldi cedette alle pressioni di Pallavicino. Scrive Roberto Martucci: “Contro l’eventualità di far insediare un’Assemblea parlamentare si muove l’abile Giorgio Pallavicino Trivulzio, Regio commissario sardo più che Pro-Dittatore garibaldino a Napoli. Affidabile e cordiale quanto si vuole, ma più che determinato a onorare gli impegni assunti a Torino con Cavour e il re. Questo spiega la sua ossessione fusionista di stampo plebiscitario, condotta spregiudicatamente tra minacce di dimissioni (rientrate) e direttive ai giornali, movimenti di piazza di dubbia spontaneità e intimidazioni nei confronti di Mazzini, Cattaneo e Ferrari”ii.

Il 15 ottobre 1860 Garibaldi da Sant’Angelo in Formis (frazione di Capua) emana un decreto con il quale affermava: “le Due Sicilie che al sangue italiano devono il loro riscatto e che mi elessero liberamente a dittatore, fanno parte integrante dell’Italia Una e Indivisibile con suo Re costituzionale Vittorio Emmanuele ed i suoi discendenti. Io deporrò nelle mani del Re, al suo arrivo, la Dittatura conferitami dalla Nazione (Francesco Crispi, nella sua funzione di Segretario di Stato, si rifiutò di controfirmare il decreto). Antonio Mordini in Sicilia corresse il decreto emanato appena dieci giorni prima ed il 15 ottobre dispose con un altro decreto (n. 256) che i comizi elettorali convocati per il 21 ottobre in luogo di procedere alla elezione dei deputati votassero per plebiscito sulla seguente proposizione: “il popolo siciliano vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti”; l’art. 2 disponeva che “il voto sarà dato per bullettino stampato o scritto portante la scritta si o no”.

Gli annessionisti avevano vinto, ai seguaci del partito d’azione e agli autonomisti siciliani non rimase che accogliere la soluzione prospettata. La transizione istituzionale fu decisa dall’alto, si attendeva solo il voto popolare per legalizzare la scelta effettuata. Questo l’orientamento prevalente anche della storiografia più recente. Però, negli Archivi comunali e nell’Archivio di Stato di Trapani sono disponibili documenti che provano un forte e diffuso sentimento unitario nella popolazione, di adesione spontanea al Regno unitario.

Con decreto del 19 ottobre 1860 il Prodittatore Antonio Mordini convocò un Consiglio Straordinario di Stato nonostante l’indizione dell’imminente plebiscito. La relazione presentata dal Consiglio di Stato, a termine del suo breve mandato, conferma ancora una volta che le istanze dei siciliani rimasero sempre, nonostante alcuni episodi violenti durante l’insurrezione del 1820 e la rivoluzione del 1848, nell’alveo delle pragmatiche istanze autonomistiche e non indipendentisticheiii.

i Roberto Martucci, La Dittatura di Garibaldi a Palermo e Napoli. Come governare la provvisorietà da Salemi all’arrivo di Vittorio Emanuele II, in Annamari Nieddu e Giuseppe Zichi (a cura di), Giuseppe Garibaldi. Il mito, l’unità d’Italia e la Sardegna, Cagliari, AM&D Edizioni, 2011, p. 384.

ii Roberto Martucci, La Dittatura di Garibaldi a Palermo e Napoli, op.cit., p. 385.

iii La Relazione presentata il 18 novembre 1860 dal Consiglio Straordinario di Stato convocato in Sicilia con decreto Prodittatoriale del 19 ottobre 1860, in Giuseppe Gennuso, La Questione Siciliana, Roma, O.E.T.-Edizioni del Secolo, 1945, pp. 56-91.